L’Islam e l’identità Svizzera perduta

Le recenti prese di posizione di Nicholas Blancho, responsabile del “Consiglio centrale islamico svizzero”, sembrano aver riaperto, anche se in sordina, un confronto che molti credo stiano sottovalutando: quello dei rapporti tra il mondo islamico e la società, purtroppo sempre più secolarizzata, svizzera.

Il Ticino non piace a una parte del mondo musulmano, quella più radicale. Non solo ha approvato il divieto di edificazione dei minareti, come avvenuto nel resto della Svizzera, ma ha pure introdotto la proibizione di indossare il burqa e altri capi d’abbigliamento in grado di dissimulare il viso, diffusi tra alcune comunità islamiche. Un’agguerrita minoranza, invece di prendere atto di decisioni prese democraticamente dalla maggioranza dei cittadini e, anche se obtorto collo, adeguarsi, ha però deciso di soffiare sul fuoco. Si tratta, e va sottolineato onde evitare scontri beceri e controproducenti, di minoranze che non rappresentano ancora seri pericoli per le istituzioni elvetiche, ma questo non significa che determinati problemi possano essere sottovalutati, facendo capo a una (presunta) superiorità del diritto occidentale su quello di altri Paesi. La questione è delicatissima perché altri Stati, basti pensare alla Gran Bretagna, alla Francia o alla Svezia, hanno dimostrato che maggiore è la tolleranza nei confronti delle richieste delle frange radicali, minore è il rispetto tributato dai fanatici alle comunità che porgono cristianamente l’altra guancia. Perché, in certi ambienti, le concessioni vengono scambiate per gesti remissivi, frutto della debolezza di comunità senza Dio, pertanto fragili e incapaci di combattere.

Purtroppo, gli svizzeri (come il resto del mondo occidentale) sono sempre in difficoltà nell’affrontare certe tematiche perché hanno la coscienza un po’sporca. Sarà bene ammetterlo e smetterla di fare le verginelle, perché i problemi si risolvono prendendone coscienza, non negandoli. Noi, infatti, partiamo con le armi spuntate perché da una parte tendiamo a concedere tutto ciò che viene chiesto, fino a negare la sempre più fragile identità cristiana ed europea (basti pensare alla folle rinuncia di allestire alberi di Natale e presepi per non offendere comunità che non si riconoscono nei nostri credo e valori). Dall’altra, siamo silenti perché con i più radicali degli islamici facciamo affari d’oro. Basti pensare all’Arabia Saudita, che ha il più bieco e intollerante regime islamista del globo terrestre, quello wahhabita, Paese nei confronti del quale la nostra classe politica si guarda bene dal prendere posizioni di alcun tipo. Eppure, sappiamo che è proprio dall’Arabia Saudita che provengono mezzi e fondi che alimentano i fanatici, anche in Svizzera.

L’ipocrisia di gran parte della classe politica che si gira dall’altra parte, fingendo che i valori (ma sono valori?) laici e laicisti saranno in grado di spazzare i venti del fanatismo, non deve però essere la scusa per tacere imbarazzati di fronte a chi crede di poter introdurre usi, costumi e abitudini lontani anni luce da quelli che noi ci tramandiamo da generazioni. La Sharia, de facto già in vigore in alcuni quartieri di Londra e Parigi, non è una questione negoziabile, in Svizzera. Ma per evitare che la legge islamica venga applicata all’interno di alcune comunità, occorre essere chiari e determinati sin da subito. Nessuno dovrebbe quindi dimenticare quello che più di un esperto ha urlato sino ad oggi inascoltato: nel mondo radicale islamico le concessioni vengono percepite come battaglie vinte, non come esempi di tolleranza religiosa. Giusto per capirci: invece di rinunciare all’albero di Natale, occorre farne due, o anche tre.

Nessuno, ovviamente, vuole negare ai musulmani, molti dei quali nati e cresciuti nel nostro Paese, moschee in cui pregare e luoghi in cui fare proselitismo. Ma le premesse per vivere in Svizzera devono essere il rispetto del prossimo, delle regole, delle leggi elvetiche e la volontà di integrarsi. Altrimenti la convivenza diventa impossibile.